TorinoFilmFestival giorno per giorno 9

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di Patrizia Monzeglio

Il festival sta per chiudere e in questo nostro penultimo appuntamento vogliamo dare spazio a due
pellicole che, nel trattare temi a noi molto vicini, hanno privilegiato il tocco lieve della commedia,
con quell’umorismo tipicamente francese che strappa la risata a scena aperta ma lo fa con stile e
misura.
“Le Barbares” di July Delpy affronta il tema dell’immigrazione presentandosi fin da subito come
una fiaba dei giorni nostri. “C’era una volta a Paimpont” recita il testo iniziale, e Paimpont è un
paesino bretone il cui sindaco decide di ospitare una famiglia di profughi per mostrare alla
televisione il buon cuore dei francesi di fronte alla tragedia della guerra in Ucraina. L’arrivo
imprevisto di siriani al loro posto (“gli ucraini sono molto richiesti sul mercato dei rifugiati”) fa
emergere i pregiudizi e le contraddizioni di un approccio all’accoglienza che, senza ammetterlo,
divide gli immigrati in serie A e serie B.
Piacevole film anche se con trama scontata. La regia, presentandolo come una fiaba, non fa sforzi
per superare i cliché sulle difficoltà della convivenza, con tanto di lieto fine, salvo poi riscattarsi nel
finale con una ripresa dal vero di un campo profughi sterminato fatto di baracche di lamiera che
chiude la pagina della favola e apre quella del reale nella sua più cruda ruvidezza.
Più interessante il lavoro di Marjane Satrapi, regista di “Paradis Paris”. Cosa succede quando
l’ombra della morte incrocia la tua vita e spezza le speranze e illusioni che l’avevano sorretta? Una
cantante lirica che viene creduta morta e scopre che nessuno più la ricorda, un barista che non
riesce a superare il lutto per la giovane moglie, una ragazzina bullizzata che desidera morire, uno
stuntmen che rischia di perdere il figlio in un incidente, un conduttore televisivo che scopre di avere
un male incurabile. Di fronte a situazioni così drammatiche Marjane Satrapi trova nel genere della
commedia la chiave di volta per mettere in mostra le nostre paure strappando un sorriso.
Le vicende dei diversi personaggi si intrecciano e i momenti che segnano l’evolversi di ogni singola
storia trovano nel gioco delle inquadrature e dei dialoghi il “fil rouge” che li tiene assieme. Un inno
alla vita e al valore delle piccole cose che scalda il cuore, prendendosi gioco dell’egocentrico punto
di vista da cui osserviamo il mondo, trascurando l’affetto di chi ci è più vicino.
«C’è una linea sottile tra sentimento e pathos. – confessa la regista – Mi piace pensare che in
questo film sia riuscita a fermarmi in tempo senza scadere nel pathos, in quello spazio incerto che
racchiude la dignità di una persona». E nel parlare dell’intepretazione di Monica Bellucci che in
questo film si mette in gioco come artista e come donna aggiunge «(…) a volte un ruolo leggero
può essere più difficile di uno drammatico. Monica si getta completamente nel suo personaggio,
ma non solo: trasforma la sua caratterizzazione melodrammatica e infantile in qualcosa di
toccante, e alla fine riesce a incarnare la tragedia. Anche nei momenti di maggiore pathos, mostra
la sua dignità di fronte al marito. Le lacrime sono belle solo quando sono timide. Quando si
mostrano in privato».