La Tragica Parabola della Violenza nel Tifo Sportivo: Riflessioni su un Dramma Evitabile

La Tragica Parabola della Violenza nel Tifo Sportivo: Riflessioni su un Dramma Evitabile

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di Nico Colani

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Il gravissimo episodio avvenuto il 19 ottobre 2025 lungo la superstrada Rieti-Terni, all’altezza dello svincolo di Contigliano, rappresenta l’ennesimo capitolo di una pagina nera che macchia lo sport italiano. Un pullman che trasportava i tifosi della Gevi Napoli Basket (ex Pistoia, in A2) di ritorno da una trasferta contro la NPC Rieti è stato oggetto di un assalto barbaro: sassi, mattoni e detriti lanciati da un gruppo di supporter locali hanno sfondato il parabrezza, causando la morte immediata del secondo autista, seduto accanto al conducente. L’uomo, un professionista innocente, è stato colpito mortalmente da un mattone, mentre il primo autista ha riportato ferite serie ma non letali. Questo non è solo un fatto di cronaca, ma un sintomo profondo di una malattia cronica che infetta il mondo del tifo sportivo, in particolare in discipline come il basket e il calcio, dove la passione dovrebbe unire e non dividere.

Gli Episodi di Violenza: Un Pattern di Follia Collettiva

La violenza ultras non è un fenomeno isolato, ma un rituale perverso che si ripete con cadenza quasi stagionale nelle arene sportive italiane. Nel calcio, pensiamo agli scontri del derby di Milano nel 2018, che lasciarono sul terreno un tifoso ferito gravemente, o al tragico 2007 con la morte di Gabriele Sandri durante una trasferta laziale. Nel basket, meno mediatico ma non meno violento, episodi simili si susseguono: aggressioni a pullman di tifosi ospiti, invasioni di campo, o lanci di oggetti che trasformano un palazzetto in un’arena gladiatoria. Secondo il Rapporto Annuale dell’Osservatorio Nazionale sulle Manifestazioni Sportive del Ministero dell’Interno, nel solo 2022-2023 sono stati registrati oltre 1.200 episodi di violenza correlata al tifo, con un incremento del 15% rispetto all’anno precedente, inclusi casi in Serie A2 di basket. Questi non sono “scintille” casuali, ma esplosioni premeditate: gruppi organizzati attendono i rivali in autostrade o parcheggi, armati di proiettili improvvisati, in un’eco distorta delle antiche faide tribali. Le conseguenze sono devastanti: morti innocenti, feriti permanenti, e un clima di terrore che allontana famiglie e giovani dallo sport, trasformandolo da veicolo di benessere sociale a zona di guerra urbana.

La Decadenza dei Tifosi: Da Passione a Patologia Sociale

Perché una fetta di tifosi – spesso giovani maschi tra i 18 e i 35 anni, provenienti da contesti periferici – scivola in questa decadenza? Non è solo “calore del momento”, ma un cocktail tossico di fattori psicosociali. Innanzitutto, la ricerca di identità: in un’Italia post-industriale segnata da precarietà economica e frammentazione sociale, il tifo diventa un surrogato di appartenenza. Il gruppo ultras offre un senso di fratellanza, un “noi contro loro” che riempie vuoti esistenziali, ma degenera in aggressività quando l’identità si cristallizza intorno all’odio per il rivale. A questo si aggiunge l’alcol e le sostanze, che amplificano impulsi repressi; l’anonimato del collettivo, che dissolve la responsabilità individuale; e una cultura “eroica” autoalimentata sui social media, dove video di scontri diventano trofei virali, normalizzando la brutalità.

Questa decadenza non è inevitabile, ma è il frutto di un fallimento educativo: generazioni cresciute a pane e retorica della violenza, dove il “vero tifoso” è chi combatte, non chi applaude. È una regressione antropologica, dove l’uomo moderno, armato di smartphone, torna a essere homo lupus, predatore del branco rivale. Nel caso di Rieti, i presunti aggressori – tifosi reatini – non festeggiavano una vittoria (la partita era finita in pareggio), ma sfogavano frustrazioni accumulate: forse la delusione per una stagione mediocre, o tensioni locali irrisolte. È la decadenza di chi, invece di canalizzare l’energia in passione costruttiva, la disperde in atti distruttivi, avvelenando l’essenza stessa dello sport.

Il Ruolo dello Stato: Tra Repressione e Prevenzione, un Equilibrio Fragile

Cosa può fare lo Stato italiano per arginare questi fatti gravosi? Molto, ma con intelligenza, non solo con manganelli. Le misure repressive esistono già: il DASPO (Divieto di Accesso alle Manifestazioni Sportive), introdotto negli anni ’80 e rafforzato dalla legge 13 dicembre 1989 n. 401 e successive modifiche, ha espulso migliaia di ultras dagli stadi, con estensioni a “DASPO di gruppo” per intere curve. Recentemente, l’obbligo di biglietti nominativi – esteso anche al basket nell’agosto 2025 – mira a tracciare i responsabili, riducendo l’anonimato. Eppure, come lamentano i tifosi “sani”, queste norme punitive non bastano: nel calcio, non hanno fermato il declino, e rischiano di alienare il pubblico innocente.

Lo Stato deve investire nella prevenzione: campagne educative nelle scuole, integrate nei programmi di educazione civica, per insegnare che lo sport è inclusione, non esclusione. Rafforzare i protocolli di sicurezza con intelligence preventiva (come l’Osservatorio del Viminale fa già), monitorando gruppi a rischio sui social e in trasferte. E poi, incentivi positivi: fondi per associazioni sportive che promuovono il tifo responsabile, o programmi di reinserimento per ex-ultras, trasformando la loro energia in volontariato o coaching giovanile. Infine, pene più severe non solo per i perpetratori, ma per i capi-curva che orchestrano, con confische di beni per finanziare vittime. Un approccio olistico: repressione mirata + educazione diffusa + investimenti sociali, per spezzare il ciclo.

Perché una Società Moderna Cade in Queste Assurdità? Le Contraddizioni del Progresso

In una società moderna, con i suoi gadget high-tech e i suoi proclami di pace globale, come è possibile che regredisca a queste barbarie? La risposta sta nelle crepe del nostro “progresso”: l’Italia del 2025 è connessa, ma isolata; informata, ma polarizzata. I social amplificano echo chamber dove l’odio si autoalimenta, trasformando un like in un’arma. Il tribalismo ancestrale – quel bisogno primordiale di “noi vs. loro” – non è stato eradicato dall’illuminismo digitale; al contrario, lo sport, come ultima arena “viva” in un mondo virtualizzato, diventa il suo sfogo. Aggiungiamoci la crisi di valori: in un’era di individualismo estremo, il collettivo ultras offre un’illusione di comunità, ma distorta.

Queste assurdità sono il prezzo di un fallimento sistemico: educazione civica carente, che lascia generazioni senza anticorpi contro la violenza; media che sensazionalizzano gli scontri per audience, creando una “retorica della violenza” che glorifica il caos. E la politica, spesso connivente con cordate ultras per voti, ritarda riforme vere. È una società che corre verso il futuro, ma inciampa nel passato: moderna nei tool, arcaica nei cuori. Solo riscoprendo lo sport come metafora di resilienza condivisa – non di vendetta – potremo invertire la rotta.

In conclusione, la morte di quell’autista a Contigliano non è solo una tragedia locale, ma un monito nazionale. Richiede non lacrime postume, ma azioni concrete: dai banchi di scuola agli scranni parlamentari. Solo così, il tifo tornerà a essere gioia, non lutto. E lo sport, italiano e universale, riacquisterà la sua anima luminosa.

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