Chick Corea l’anticonformista

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di Guido Michelone

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«Chick Corea, l’Anticonformista» è il nuovo libro di Francesco Verrina, insigne jazzologo umbro e
autore di parecchi volumi dedicati ai maggiori esponenti del sound moderno quali Miles Davis,
Sonny Rollins, Art Pepper, Chet Baker, John Coltrane, Charles Mingus e moltissimi altri.
L’ultimo testo al momento è questo dedicato al sommo tastierista di origini italiane, di cui
l’Autore, in quest’intervista inedita, ne tratteggia la figura di uomo e artista.
D In cinque righe chi è Chick Corea?
R Sinteticamente, si potrebbe dire: uno dei più importanti pianisti jazz del dopoguerra, ma con una
preparazione accademica, una tecnica ed un prolificità compositiva superiore a quella molti suoi
coevi. Il pianista italo-americano era dotato della capacità innata di saper adattare la propria
scrittura a qualsiasi ambito sonoro: dal flamenco a Mozart. Simpaticamente – come scrivo nel librun uomo solare e sorridente con una «faccia da italiano in gita», citando Paolo Conte.
D Perché – nel titolo – lo chiami l’Anticonformista? Verso chi o cosa?
R Chick, a parte nelle fasi iniziali della sua carriera, quando sembrava potesse aderire ai dettami
del post-bop, è sempre stato un «deformatore» del vernacolo jazzistico, giungendo presto ad una
sua «conformazione» del modulo espressivo declinato, oltremodo, attraverso una serie di
dinamiche e stilemi differenti, ma sempre inequivocabilmente caratterizzati da un metodo
pianistico distintivo ed in costante crescita. La regola d’ingaggio di Corea è sempre apparsa, più
che anticonvenzionale, «anticonformista», specie in relazione a quanto gli accadeva intorno, o in
riferimento a quelli che erano i dettami jazzistici ed i codici stilistici del momento.
D Tu, come sempre, analizzi i jazzisti attraverso i dischi: nelle discografie da te citate, hai
utilizzato circa la metà degli album ufficiali di Corea. Con quali criteri?

R Esistono due criteri: uno è oggettivo, basato sull’importanza storica e la rilevanza commerciale
di alcuni album; l’altro è soggettivo, ma generalmente finalizzato alla riscoperta di taluni passaggi
della discografia dell’artista, probabilmente trascurati, magari anche involontariamente dalla
critica e dalla storiografia.
D Ci sono passaggi obbligati ovvero dischi-chiave nell’opera di Chick Corea? Quali e perché?
R. Ne esistono tanti. Fortunatamente, Corea non è stato un compositore troppo legato ad una
singola avventura: quando gli altri arrivavano, lui cambiava aria. Avrei potuto anche indicare altre
pubblicazioni, poichè c’è solo l’imbarazzo della scelta. Questi album, però, sono basilari, a mio
avviso, poiché rappresentano momenti cruciali della sua carriera e racchiudono un infinità di stili,
per i quali Corea è passato alla storia. Ritengo fondamentali per iniziare ad inquadrare le tante
sfaccettature della personalità musicale (multipla) del pianista, soprattutto questi: «Now He Sings,
Now He Sobs», 1968 ; «Circulus», 1970; con Gary Burton «Crystal Silence», 1972; con i Return To
Forever «Light As A Feather», 1973 e «Hymn Of The Seventh Galaxy», 1973; con Herbie Hancock
«CoreaHancock», 1978; «My Spanish Heart», 1976: «Three Quartets», 1981; «Remembering Bud
Powell (w/friends)», 1997; Chick Corea Akoustic Band With John Patitucci e Dave Weckl «Live»,
2018.
D Nella classica discografia ideale dei 300 dischi essenziali nella storia del jazz, quali e quanti
inseriresti di lui? E quali altrui dove c’è anche lui?

R Personalmente, non credo che 300 dischi facciano una discografia ideale, almeno in ambito
jazzistico. Non è roba per veri cultori o esperti, ma per ascoltatori della domenica. Pensa che io,

solo di Miles Davis, ne ho circa 200. Comunque, per stare al gioco, almeno un album o due per
ogni fase evolutiva della sua carriera: post-bop, free-jazz, ispanico-latina e jazz-fusion (elettrica ed
acustica). Lasciamo stare i dischi fatti con altri musicisti inter pares o come sideman, altrimenti
Corea finirebbe per occupare tutte le caselle, basti pensare alla sua collaborazione con Miles
Davis, comunque documentata dettagliatamente nel libro.
D Anche se dopo la fusion (anni ’70) è sempre più difficile etichettare il nuovo jazz con
neologismo come bebop, cool, free, mainstream, eccetera, riesci a definire uno o più stile, a
parte quello jazz-rock, poi ripreso dalle varie formazioni elettriche?

R. Il jazz è sempre jazz, a prescindere. Prima e dopo i Settanta, i Cinquanta, i Trenta o gli anni 2000,
al netto delle etichette che gli sono state via via attribuite per comodità enciclopedica o editoriale.
Pur passando attraverso cento anni di storia ed una serie di evoluzioni stilistiche, il jazz deve
essere sempre basato sulle scale di blues e sul ritmo swing (inteso come tempo e non come
genere) e caratterizzato da due elementi distintivi: l’improvvisazione e l’interplay. A questo punto
lo puoi chiamare anche Tatiana. Tutto il resto, se non risponde a talune caratteristiche
compositive ed esecutive, non è jazz. Tra il jazz acustico ed elettrico, la differenza non è
sostanziale, ma formale ed dovuta all’uso di strumenti elettrificati, rispetto a quelli acustici. Un
pianoforte a coda ha un suono diverso da una pianola Rhodes, ma le note e gli accordi sono
sempre gli stessi. La differenza di suono non crea una diversità di genere, se la struttura ritmico-
armonica rimane la stessa. Il jazz, ad esempio, in ambito sperimentale, può essere suonato e
trattato anche attraverso l’elettronica, purché risponda a taluni requisiti.
D Oggi, paradossalmente, il tuo punto di vista è antitetico…
R Sì, rispetto a quello di molti profeti di sventura, che di jazz hanno solo un’infarinatura; certi
coatti che ti dicono: il jazz è morto, il jazz non esiste più..non ci sono più le mezze stagioni;
insomma i soliti codificatori dell’ovvio per limiti intellettuali o gli immancabili laudatores temporis
acti. Nel contesto contemporaneo, il jazz è musicalmente la forma espressiva più viva, sia dal
punto di vista idiomatico-tradizionale che sperimentale. Ed è proprio nella sua forma acustica che
esso mantiene quel germe vitale e fecondo, che consente aperture, contaminazioni ed
impollinazioni trasversali; finanche di essere trattato come la «puttana» di chiunque, anche di quei
Lanzichenecchi dello spartito che producono astrusità sonore divaganti, avulse da ogni congruità
armonica e strumentale di tipo jazzistico.
D Facendo un paragone con gli altri tre pianisti jazz (Hancock, Jarrett, Tyner) emersi con lui
all’inizio dei Seventies (pur con notevoli precedenti) come si rapportano i quattro? Cos’hanno in
comune e cosa di completamente diverso fra loro in sintesi?

R Il discorso sarebbe alquanto lungo: erano accomunati solo dal fatto di suonare il pianoforte.
Tyner, aveva cominciato molto prima ed è stato, in parte, il custode di una certa tradizione
pianistica: il re del quartale. Jarrett rappresenta l’antitesi di Corea, di cui è stato anche
antagonista, commercialmente, un competitor. L’uno ha dedicato quasi tutta la sua produzione al
concetto di improvvisazione dinamica, l’altro ha sempre rappresentato la genialità della
composizione scritta adattabile a differenti contesti sonori. Con Hancock, è ravvisabile qualche
affinità elettiva in più. Infatti i due hanno suonato insieme più volte e prodotto alcuni dischi a
quattro mani, o se preferite, a due pianoforti.
D Lavorando, come credo, anche sulla parte biografia, hai scoperto qualcosa circa la sua
presunta omosessualità?

R Quello che posso dirti è che Chick Corea era regolarmente sposato con una donna, Gayle Moran,
musicista, cantante e compositrice, oltremodo parte integrante di alcuni suoi progetti discografici.

Non mi risulta che il pianista abbia mai fatto nulla per lasciar ad intendere – o sospettare – una sua
differente tendenza sessuale, da quella ufficialmente dichiarata, ossia l’essere «straight». Si era
vociferato di un suo legame amicale, molto stretto con il vibrafonista Gary Burton, ma come si
direbbe oggi, nessuno dei due ha mai fatto coming out of the closet. Nulla di male, comunque, se
così fosse stato, nel senso che Chick se avesse avuto delle tendenze omosessuali, poco sarebbe
cambiato nel giudizio degli storici e dei critici musicali. Sono certo che una differente vita privata
non ne avrebbe condizionato o inficiato la produzione musicale. Per dirla in soldoni, ritengo che
l’arte sia asessuata. Diversamente sarebbe come voler parlare di sesso degli angeli.
D Come influiscono, secondo te, le tendenze sessuali sull’opera di un jazzista?
R In parte ti ho già risposto prima. Al netto degli orientamenti sessuali, non penso che la bravura o
la grandezza di un musicista, o di un artista in genere, sia legata ai suoi orientamenti in fatto di
sesso. Per contro, si rischierebbe di cadere nel luogo comune. Forse, il jazz di stereotipizzazioni ne
ha subite tante nel corso dei decenni. Si pensi al binomio: nero uguale drogato.
D A differenza del pop-rock e persino della classica, nel jazz l’omosessualità sia maschile sia
femminile resta un tabù, quasi una vergogna (tant’è che almeno in Italia non ho mai trovato libri
o articoli sull’argomento). Perché?

R Tu mi parli di libri e di articoli, che non so se attengano allo studio, alla ricerca e agli interessi di
uno storico del jazz o di un critico musicale. Nello specifico, sai bene, che io sono il più distante da
certe curiosità morbose, di cui è solitamente infarcito il noioso biopic americano. Personalmente,
ritengo che sia molto più interessante capire con chi i musicisti suonino e non con chi facciano
l’amore. A meno che lo storico o lo studioso non abbia un gusto alquanto simile a quello della
«casalinga di Voghera». In quanto al rock, dove da sempre vige una componente estetica ed
un’esteriorizzazione visuale dell’immagine, sin dall’inizio, la diversità e la liberà sessuale sono state
ostentata come una forma di conquista rispetto ai valori tradizionali della società degli «adulti» e
dei conservatori. Il rock è (ed è stato) un fenomeno di rottura ed antagonista a prescindere. Il jazz,
specie oggigiorno, è una forma d’arte (quasi accademica), in cui l’estetica viene dettata dal suo
stesso contenuto e dalle capacità esecutive dei vari protagonisti, e non dagli atteggiamenti
esteriori o dalle preferenze sessuali dei singoli artisti. Forse, qualche eccezione, finisce per
confermare la regola.
D Altro tema spinoso: Corea e Scientology. Anche qui questa setta può averlo condizionato?
Perché un uomo di mondo come lui aderisce a questa congrega come questi oltretutto
anticomunisti sino al midollo?

R Personalmente non ho mai subito il fascino dei questa vicenda. Non è dato, comunque, di sapere
realmente – a parte le dicerie – quali siano stati i condizionamenti che spinsero Corea verso tale
scelta. Del resto, in quel periodo, suonava con profitto quanto e più di prima. Presto, fece marcia
indietro dedicandosi ancora più caparbiamente alla sua ricerca musicale. Al netto, di ogni
inquinamento esterno, non v’è nulla che possa oscurare storicamente la figura di Chick Corea, il
quare rimane, per qualità e quantità autorale, compositiva e discografica, uno dei jazzisti più
importanti e prolifici di tutti i tempi.