Non voglio diventare una rock star, voglio diventare una leggenda. Freddie Mercury

34 Anni Senza Freddie: Una Voce Eterna che Non Conosce il Tempo

Visite: 188
Pubblicità
Tempo di lettura:4 Minuti, 12 Secondi

di Nico Colani

Pubblicità

Il 24 novembre 2025, sono passati esattamente 34 anni da quel giorno fatidico del 1991, quando Freddie Mercury ci lasciava per sempre a Garden Lodge, la sua casa a Kensington, Londra. A 45 anni, il frontman dei Queen se ne andava in silenzio, portato via da una polmonite bronchiale complicata dall’AIDS, ma la sua eredità? Quella è un’esplosione di vita che continua a illuminare il mondo. Vi voglio raccontare la sua storia, dagli albori di un ragazzo timido con sogni grandi, ai trionfi che hanno ridefinito la musica rock, fino a quei momenti intimi e complessi che lo resero umano e iconico. Perché Freddie non era solo un cantante: era un uragano di emozioni, ambiguità e genio.

Immaginate un bambino di nome Farrokh Bulsara, nato il 5 settembre 1946 a Stone Town, in Zanzibar, da genitori parsi-indiani. La sua infanzia è un mosaico di culture: a otto anni, i genitori lo mandano in un collegio britannico a Panchgani, in India, dove scopre il piano e inizia a comporre le sue prime melodie. La rivoluzione zanzibariana del 1964 lo costringe a fuggire con la famiglia a Londra, dove si iscrive all’Ealing Art College e diventa un illustratore di talento – tanto da disegnare i primi loghi per band come i Doors. Ma la musica lo chiama a gran voce. Forma i suoi primi gruppi, Ibex e Wreckage, e nel 1970 incontra Brian May e Roger Taylor: è l’inizio dei Queen. Freddie diventa il collante perfetto, con la sua voce da quattro ottave e un carisma che trasforma un garage in un’arena globale.

E i successi? Oh, quelli sono leggende scolpite nella storia del rock. “Bohemian Rhapsody” del 1975, un’opera epica di sei minuti che mescola opera, ballad e hard rock, venduta in milioni di copie e immortale grazie a *Wayne’s World*. Poi “We Are the Champions”, l’inno universale cantato negli stadi da generazioni di tifosi. “Somebody to Love” con il suo gospel soul, “Killer Queen” che celebra l’eleganza letale, “Don’t Stop Me Now” – un’esplosione di gioia pura – e “Crazy Little Thing Called Love”, scritta in vasca da bagno in soli 10 minuti. Da solista, il suo album *Mr. Bad Guy* del 1985 regala perle come “I Was Born to Love You”. Freddie non scriveva hit: creava inni che ti entrano nell’anima, e ancora oggi, streaming e radio li pompano come se fossero usciti ieri.

Ma dietro il glitter e i baffi iconici, Freddie viveva un’ambiguità affascinante, un mix di luci e ombre che lo rendeva così autentico. Bisessuale, non ha mai etichettato pubblicamente la sua sessualità – un’epoca diversa, un mondo meno pronto. La sua relazione più profonda fu con Mary Austin, l’amore della sua vita, a cui dedicò “Love of My Life”. Lei lo conosceva meglio di chiunque: quando Freddie le confessò di essere attratto anche dagli uomini, gli disse con onestà brutale: “Non credo che tu sia gay, credo che tu sia bisessuale”. Fu la fine romantica tra loro, ma l’inizio di un’amicizia eterna – Mary ereditò Garden Lodge e metà del suo patrimonio. Poi arrivò Jim Hutton, il suo compagno negli ultimi anni, con cui visse una quotidianità tenera, tra risate e cure reciproche. Freddie navigava queste acque con grazia felina: in pubblico, un dandy flamboyant; in privato, un uomo che amava liberamente, senza catene, diventando un’icona queer ante litteram senza nemmeno saperlo.

I suoi ultimi momenti? Un capitolo straziante, ma di una dignità commovente. Nel 1987 gli diagnosticano l’AIDS, ma lo tiene segreto per anni, circondato da un cerchio ristretto di amici. Nel giugno 1991, ormai confinato a letto dal dolore lancinante – “peggio di quanto possiate immaginare”, dirà Jim – Freddie chiede un ultimo gesto: essere portato di sotto, nella sua casa, per salutarla un’ultima volta. Il 23 novembre, il giorno prima di morire, rilascia una dichiarazione pubblica: “Vorrei confermare che sono affetto dall’AIDS. Ho sempre pensato che fosse una questione privata, ma ora è il momento di annunciare”. Muore il mattino dopo, alle 18:49, con Jim, Mary e i gatti al suo fianco. Niente funeral pomposo: cremato in privato, le ceneri sparse in un giardino segreto a Mary.

E i fan? Ancora oggi, nel 2025, sono una legione viva e pulsante. Pagine Instagram come @freddiemercuryfans pullulano di reel che celebrano il suo compleanno o l’anniversario della morte, con milioni di like. I tour di Queen + Adam Lambert riempiono stadi da Tokyo a Londra, e “Bohemian Rhapsody” ha superato i 2 miliardi di stream su Spotify. Il suo lascito è resiliente: festival tributo, documentari, e un messaggio di autenticità che ispira generazioni LGBTQ+ e chiunque lotti di libertà. Freddie ci ha insegnato che la musica non muore – evolve, connette, guarisce.

In chiusura, lascio l’ultima parola a lui, da quel capolavoro che è “Bohemian Rhapsody”: “Nothing really matters to me… Any way the wind blows”. Perché alla fine, Freddie, hai ragione: nulla importa davvero, tranne l’amore che hai sparso nel vento. E quel vento soffia ancora forte.

Iscriviti ai nostri Canali WhatsApp o Telegram per non perderti tutte le News di AlessandriaSarà.
ACCEDI a: WhatsApp   o   Telegram